mercoledì 16 luglio 2014

riflessioni

Nei giorni scorsi, mentre tornavo a casa dopo essere andata a comprare il pane, mi sono accorta che dietro di me c’era una famigliola. Un padre nord africano, forse marocchino o tunisino, passeggiava con i suoi due figli. La bimba di 2 o 3 anni stava tranquilla nel passeggino che lui spingeva, seduta solo un po’ di sghimbescio con le gambine sui braccioli. Il maschietto di circa 6 anni saltellava su e giù dal marciapiedi, scavalcava i muretti, si fermava e poi prendeva la rincorsa. D’improvviso ha attraversato la strada, il padre lo ha subito rimproverato con un forte accento straniero: “Jaman non devi fare così! E’ molto pericoloso, non lo devi fare mai più! Non è la prima volta che succede e se non prometti che non lo fai più non ti porto più in giro con me!” Avendo anch’io dei figli ho capito bene il suo spavento, la necessità di rimproverare il bambino e lo sforzo fatto per contenersi, non so se parlava in italiano perché io capissi cosa diceva o se perché quelle sono le parole  che il bimbo avrebbe sentito dalle maestre e dagli amici. Certo ho capito il senso di chi chiede che venga riconosciuta la cittadinanza a coloro che sono cresciuti nel nostro paese: quel padre, soffocando le frasi che gli stavano uscendo dal cuore per usare parole diverse sta facendo di Jaman - se passerà incolume dalla sua irrequieta fanciullezza - un cittadino europeo.

  

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